“Fight Club”: la fragilità maschile ieri e oggi
Analisi del film cult diretto da David Fincher, con Edward Norton e Brad Pitt
“Fight Club” è uscito nelle sale più di venticinque anni fa, cambiando per sempre la percezione degli spettatori sul cinema: il film diretto da David Fincher ha infatti dimostrato quanto un’opera d’arte sia capace di riflettere (se non prevedere) la realtà oltre lo schermo, unendo un certo tipo d’intrattenimento alla riflessione e all’introspezione.
Dal 1999 a oggi l’evoluzione tecnologica ha infatti portato all’esasperazione i temi presenti nella storia narrata, mutando rapidamente e raggiungendo sempre più persone; fenomeni come l’alienazione, la perdita dell’identità e del proprio Io, già narrati dalla pellicola, oggi sono più che mai condivisi da un’ampissima fetta di popolazione.
Tanti sono gli spunti di riflessione, partendo proprio dalla trama: quanto può essere attuale la storia di un uomo che, colto da una necessità impellente di sentirsi un individuo attivo nella società, decide di creare da zero un club di anarchici spaventati dal mondo attorno a loro?
La dissociazione, la discordanza col proprio sentire, è un fardello che oggi tanti portano sulle loro spalle; se in una celebre scena il protagonista (Edward Norton) si sottopone a una tortura fisica bruciandosi la mano, obbligato dal suo alter ego Tyler Durden (Brad Pitt), non è per puro masochismo: è per dimostrare di essere una persona, che percepisce la propria essenza corporea senza mediazioni, privandosi dei confort della modernità per ancorarsi a un passato primitivo e tangibile.
Già in “Persona”, d’altronde, il capolavoro di Bergman, la difficoltà nel ritrovare la propria identità autentica è un viaggio arduo e confuso, che non può che concludersi con la sovrapposizione e fusione di maschere e personalità: un concetto che poi, decenni dopo, sarà ripreso anche in “Mr. Robot” (che con “Fight Club” condivide tantissimi parallelismi).
Ecco quindi perché l’esigenza (spoiler!!!) della creazione di un alias, di un altro Sé: Tyler Durden, la parte più sicura e intraprendente del personaggio di Norton, quel lato che vorrebbe tanto sotterrare ma che ha l’esigenza di esibire nei momenti in cui desidererebbe solo scomparire.
Il look dei due è un’immagine potente, da questo punto di vista: Durden è punk, al limite del caricaturale, ostenta senza pudore accessori e capi estremamente connotati, mentre il povero protagonista si veste con maglie e camicie standard, prive di segni riconoscibili, uno sfondo neutro sul quale, all’occorrenza, è facile poter incollare sopra un’altra personalità.
Dal cercare un’identità nei gruppi d’aiuto per i malati di cancro a inventarne una nuova, il passo è breve: quando verso la fine l’amico di Norton muore e gli altri membri cominciano a ripeterne ossessivamente il nome a voce alta, come in un coro, il processo progressivo della dissoluzione e dispersione del proprio Io raggiunge il suo apice.
Walter Benjamin lo chiamava “sex appeal dell’inorganico”, quella capacità dei beni materiali di possedere i loro compratori, un concetto che Marx spiegava con la definizione “culto della merce”: in una società all’inverso, in cui tutti siamo alla ricerca della nostra vera espressione, siamo circondati da oggetti che ci trascinando verso l’acquisto compulsivo, facendoci bramare il loro possesso per colmare i nostri vuoti.
E allora la parabola di “Fight Club” diventa un tragico ritratto moderno: uomini soli, dalla mascolinità fragile, che sentendosi abbandonati e confusi si uniscono a un pazzo che si colpisce da solo in un parcheggio, ergendola al ruolo di “messia” e trovando nell’estremismo e nel cieco squadrismo il loro unico appiglio.
Elon Musk ha detto in un controverso tweet: “Amo Trump tanto quanto basta a non essere omosessuale”, e questa frase assurda e apparentemente innocua ci rivela in realtà molto del reale significato dietro al film: il contatto fisico, prima nei gruppi di sostegno e poi nelle lotte all’ultimo sangue nello scantinato del club, il dolore corporeo, diventa l’unico segnale della propria esistenza attiva, un’ostentazione testosteronica per dimostrare di aderire a un concetto idealizzato di mascolinità.
“Fight Club” spiegava già nel 1999 concetti quali il machismo tossico, l’alienazione e la dissociazione, ma non gli abbiamo prestato ascolto: rileggerlo ora, a distanza di anni, non può che renderci consci della sua profetica visione.