“Mickey 17”: l’alienazione interiore come satira politica
Analisi del nuovo film di fantascienza diretto da Bong Joon-ho, con protagonista Robert Pattinson
Michel Foucault, nel celebre saggio “Sorvegliare e punire”, scriveva:
“La disciplina fabbrica partendo dai corpi che controlla […] L’individuo non è che l’atomo fittizio di una rappresentazione ideologica della società, una realtà fabbricata dalla tecnologia specifica del potere”
Questo passaggio mi è venuto subito in mente, quando ho visto al cinema “Mickey 17”: il nuovo film del regista sudcoreano Bong Joon-ho (famoso principalmente per “Parasite” e “Memorie di un assassino”), infatti, racconta la storia di un uomo che per voltare pagina e vivere in un altro pianeta decide di accettare un lavoro al limite del masochismo: fare da cavia umana, da topo da laboratorio, continuando a morire mettendosi in condizioni rischiose per accelerare la ricerca scientifica sui nuovi pianeti colonizzati, ritornando poi in vita a ogni decesso grazie all’introduzione di nuove tecnologie rigenerative.
È una satira distopica, tragica e atroce a parole, ma che nei fatti il regista riesce a trasporre in una chiave burlesca: in una realtà alienata e allo sbando come quello attuale, decidere di consegnare la propria vita (e in questo caso, direi la morte) al servizio di uno spietato dittatore in vena di conquiste (a metà tra la parodia di Trump e Musk) è la metafora di un’umanità sempre più divisa, da sé stessa e dal mondo, che pone la propria esistenza in secondo piano rispetto a un illusorio sogno di evasione destinato a fallire (vedasi “Anora”).
E allora il protagonista continua a morire, a mettere anima e corpo al servizio di uno Stato che non lo considera e ne sfrutta il lavoro incessante, finché non succede l’inimmaginabile: per via di un errore di produzione, si generano due versioni dello stesso Mickey, portando allo scontro tra un “Mickey 17” e un “Mickey 18”.
Il dualismo è uno dei temi cardine dell’ultima produzione cinematografica: si pensi banalmente a “The Substance”, l’horror femminista della Fargeat dove vengono generate versioni più giovani e performanti di sé stessi, e dove il tema del doppio ritorna come metafora di un’alienazione dal proprio Io dalla quale, oggi, è quasi impossibile sfuggire.
Anche in “Mickey 17”, la clonazione è quindi la chiave di volta per comprendere il film: Mickey diventa nemico di sé stesso, capisce di essere solo un frammento della sua totalità, un pezzo di un ingranaggio al servizio di un sistema politico che ha paura della sua totalità perché lo poterebbe all’emancipazione.
La molteplice performance di Pattinson, a tratti caricaturale, rende perfettamente l’idea dietro alla pellicola: la sua fisicità cambia a seconda della versione interpretata di Mickey, così come le sue espressioni e la sua tonalità di voce, così da darci l’impressione di una frammentazione che, ancor prima di essere biologica, è soprattutto mentale.
Non è la prima volta che Bong Joon-ho attacca il capitalismo, e questo film sembra la conclusione perfetta di un’evoluzione artistica e ideologica nata con “Snowpiercer” e proseguita poi con “Okja”: il cinema può rendere intrattenimento la lotta politica, l’attivismo, e trasmutarlo persino in satira, attirando spettatori che pensavano di entrare in sala per vedere un film drammatico ed esistenzialista e che si ritrovano davanti un appassionato manifesto di libertà interspecista.
Il dualismo di Mickey è solo apparente, così come quello di Sue ed Elizabeth in “The Substance”: abbracciare le diverse parti di noi, ricostituire un’integrità che il sistema sembra averci insegnato a odiare, significa riappropriarsi della propria identità.
Come ci mostra “Mickey 17”, non c’è valore più grande.
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